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Disastro del Challenger: cos’è successo quel giorno

Disastro del Challenger

Space Transportation System Number 6, Orbiter Challenger, lifts off from Pad 39A carrying astronauts Paul J. Weitz, Koral J. Bobko, Donald H. Peterson and Dr. Story Musgrave.

28 Gennaio 1986: proprio in questo giorno avvenne, in Florida, uno dei più grandi disastri della ricerca spaziale. Ancora oggi non tutta la dinamica della vicenda è stata chiarita, soprattutto sul tragico destino dei membri dell’equipaggio. Tra loro era presente anche un’insegnante delle scuole elementari (la prima passeggera civile verso lo spazio), il cui scopo era fare delle lezioni di scienza in orbita all’interno dello Space Shuttle Challenger.

Le cause del disastro

Equipaggio del STS-51-L. Prima fila da sinistra a destra: Michael John Smith, Dick Scobee e Ronald McNair. Seconda fila da sinistra a destra: Ellison Onizuka, Christa McAuliffe, Gregory Jarvis e Judith Resnik. Credits: Wikipedia.org

La missione veniva dopo una lunghissima serie di successi da parte della NASA e anche a causa di questo l’attenzione verso la sicurezza era venuta meno. Anche se, come in ogni grande tragedia, la causa non fu una sola.

Nell’antefatto del Challenger c’è sicuramente da ricordare che l’iniziale data di decollo in realtà fu rimandata più volte a cause di condizioni meteo sfavorevoli, problemi meccanici e legati alla logistica. Ciò spinse i direttori di volo a non badare troppo alle condizioni meteo nella mattinata del 28 Gennaio, quando tutto si voleva tranne un ulteriore slittamento. Esso infatti avrebbe causato problemi alla finestra temporale in cui mettere in orbita due sonde.

La tragedia

Il Challenger si staccò dalla rampa di lancio alle ore 11.39 e dopo solo 73 secondi scomparve all’interno di una palla di fuoco insieme all’enorme serbatoio esterno. Inizialmente ci fu molta confusione sull’accaduto. Solo dopo aver osservato attentamente i video del decollo fu individuata la distruzione di alcune O-ring (guarnizioni di gomma), prima ancora dello stacco da terra. Una giuntura in uno dei due SRB (razzo a propellente solido) si ruppe e causò al momento dell’accensione una enorme sollecitazione sulle guarnizioni di gomma, che non resistettero poiché a causa del freddo avevano completamente perso resilienza.

Questo fenomeno sulla perdita di resilienza fu mostrato dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman che insieme a Neil Armstrong (primo uomo sulla luna), Chuck Yeager (primo uomo a superare il muro del suono) e altri tecnici e scienziati, formarono la commissione per ricercare le cause del disastro.

L’esplosione non avvenne a terra perché dell’ossido di alluminio generò quasi istantaneamente una specie di saldatura momentanea che impedì al fumo di uscire. A quota più alta inoltre lo shuttle subì un fortissimo wind shear (rapida e forte variazione della direzione e intensità del vento) tra i più forti registrati nella storia del volo spaziale. Questa forte scossa subita, causò la rottura delle saldature formatesi dalla fuoriuscita degli ossidi di alluminio. Il combustibile solido infiammato uscì e andò ad incendiare l’enorme serbatoio esterno di combustibile liquido. Quindi non ci fu nessuna esplosione, infatti non venne avvertito nessun rumore.

Perché allora non rimase nulla della navicella?

Credits: thegalleria.eu

Al contrario di quanto si può pensare dai video della tragedia, il Challenger fu distrutto esclusivamente dalle forze aerodinamiche. Infatti immediatamente dopo essersi incendiato il serbatoio esterno, lo shuttle si posizionò in una posizione non aerodinamica. Avendo già a quel punto un mach di volo quasi pari a 2, esso si disintegrò istantaneamente.

Poteva essere salvato l’equipaggio?

Molto si è discusso su questo tema dalla NASA e dai membri della commissione d’inchiesta. Infatti la cabina di pilotaggio non si disintegrò subito. Essa subì una forza di circa 20G per qualche secondo. Enorme ma non sufficiente né a distruggerla né a uccidere i membri dell’equipaggio. Non è ancora chiaro se la cabina si depressurizzò dopo questo evento, sicuramente se ciò avvenne i membri morirono di lì a poco.

Tuttavia è certo che se fossero sopravvissuti, dopo circa 2 minuti sarebbero morti in seguito allo schianto della cabina contro l’oceano (con una decelerazione di circa 200G). Un tale urto non lasciò nulla dei membri dell’equipaggio e nemmeno della cabina per poterla analizzare. Lo sgomento fu tale che non ci fu nessuna missione spaziale per i successivi due anni.

L’ipotesi dei sedili eiettabili

Nelle prime quattro missioni dello Space Shuttle furono usati dei seggiolini eiettabili (modificati da un Blackbird SR-71), che in seguito vennero rimossi. I motivi di tale decisione furono sia strutturali, sia di sicurezza in quanto utilizzarli in fase di lancio non era possibile. Infatti il rischio di finire negli scarichi del razzo a propellente solido era troppo alto.

Si può quindi dedurre che un sistema di salvataggio d’emergenza non era una facile soluzione ingegneristica, impossibile dopo l’accensione dei due booster. L’unica possibilità di salvezza ci fu quando gli ingegneri progettisti dei due SRB, venendo a conoscenza delle basse temperature, sconsigliarono il lancio. Purtroppo questi avvisi non furono comunicati adeguatamente alla NASA.

“A volte, quando cerchiamo di raggiungere le stelle, falliamo. Ma dobbiamo sollevarci nuovamente e andare avanti nonostante il dolore.” Ronald Reagan

A cura di Manuel Contini.