Laika, il sacrificio che cambiò la corsa allo spazio per sempre

La piccola Laika (Wikimedia Commons foto) - www.aerospacecue.it
La cagnetta di strada che divenne il primo essere vivente in orbita e cambiò per sempre il destino dell’esplorazione spaziale.
Mosca, fine anni ’50. Una città che correva veloce, tra ideali e cemento, e in mezzo a tutto questo—senza che nessuno ci facesse troppo caso—viveva una cagnetta randagia. Piccola, dal pelo chiaro, occhi un po’ malinconici e quel passo incerto di chi ha sempre fame. Nessuno l’avrebbe mai detta una pioniera. Eppure, il suo destino era scritto tra le stelle.
Erano tempi in cui lo spazio non era ancora romantico. Era un campo di battaglia, anche se invisibile. Gli USA da una parte, l’Unione Sovietica dall’altra. Chi arrivava per primo, chi lanciava qualcosa lassù per far vedere al mondo chi comandava. E in quella corsa frenetica, un animale—un cane!—divenne il volto (il muso?) di una conquista. Solo che lei non l’aveva chiesto.
Tutto venne preparato in fretta. Khrushchev voleva una missione da lanciare il 7 novembre 1957, per i 40 anni della Rivoluzione. Gli ingegneri sovietici, sotto pressione, costruirono Sputnik 2 praticamente da zero. Senza disegni tecnici precisi, improvvisando. Doveva essere grande abbastanza da ospitare un essere vivente, ma non troppo pesante. Era una scommessa. E il passeggero? Beh, avrebbe avuto un solo pasto. Uno solo. Perché—lo sapevano tutti—non ci sarebbe stato ritorno.
Le candidate furono selezionate tra le strade di Mosca: femmine, perché più docili e piccole. Furono addestrate in condizioni assurde: chiuse per giorni in capsule strette, abituate al rumore, alla pressione, ai disagi. Alla fine la prescelta fu una meticcia tranquilla, dal nome Kudrjavka. Poi ribattezzata Laika, che vuol dire “abbaiona”. Il backup era Albina, ma—pare—le volevano troppo bene per mandarla a morire. Prima del lancio, Laika fu anche portata a casa da uno degli scienziati, Yazdovsky, per farle passare una notte normale. Un ultimo gesto gentile, forse.
Quando il razzo si alzò
Era il 3 novembre, erano le cinque e mezza del mattino. La navicella partì, portando Laika nello spazio. Il decollo fu un trauma: il battito cardiaco triplicò, il respiro andò fuori controllo. Ma ce la fece, raggiunse l’orbita.
La capsula girava attorno alla Terra in poco meno di due ore. Però qualcosa non andò. Il sistema di raffreddamento non funzionava e la temperatura salì alle stelle—letteralmente. Oltre 90 gradi dentro lo Sputnik 2. Secondo i dati divulgati solo molti anni dopo, Laika morì poco dopo il lancio. Non sette giorni dopo, come aveva detto la propaganda.
La cagnetta che entrò nel mito
Il suo corpo non tornò mai. Lo Sputnik continuò a girare attorno al pianeta per mesi, finché non si disintegrò rientrando nell’atmosfera. Ma Laika rimase. Non nel corpo, ma nella memoria. Francobolli, statue, cartoni, libri, canzoni.
C’è un punto su Marte che porta il suo nome. E una statua a Mosca, vicino a un centro militare. Anche se il suo volo era destinato alla morte, dimostrò che si poteva vivere nello spazio. E da allora, Laika non fu più solo un cane. Fu—è ancora—il simbolo di ciò che si è disposti a perdere per andare più in là.