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Tracce di vita su Marte? Cosa ha trovato veramente Perseverance sulla superficie del Pianeta Rosso

Illustrazione di tracce di vita su Marte (Canva FOTO) - aerospacecue.it

Illustrazione di tracce di vita su Marte (Canva FOTO) - aerospacecue.it

Trovare tracce di vita extraterrestre non è semplice, e questa volta forse arriva qualche indizio dal Pianeta Rosso.

Da anni il cratere Jezero, sul pianeta rosso, è al centro delle attenzioni della missione Perseverance. Gli scienziati sospettano che un tempo questo enorme bacino ospitasse un lago, un ambiente potenzialmente adatto a forme di vita microbica. Ora un nuovo studio, pubblicato il 10 settembre 2025, ha riportato al centro del dibattito un affioramento roccioso nella zona chiamata Neretva Vallis, lungo il margine occidentale del cratere. I ricercatori hanno individuato minerali in grado di raccontare una storia complessa fatta di reazioni chimiche in ambienti freddi e ricchi di acqua.

Uno dei campioni più affascinanti proviene da una roccia battezzata Cheyava Falls, famosa per le minuscole macchie scure e circolari, le cosiddette “leopard spots”, che costellano la superficie. Alcuni scienziati le paragonano a strutture che, sulla Terra, sono spesso associate a comunità microbiche fossili. Eppure la prudenza resta d’obbligo: fenomeni geologici non biologici possono generare “disegni” simili. La stessa NASA, durante la conferenza stampa, ha parlato chiaramente di potenziali “biosignature”, un termine che indica un possibile segnale di attività biologica, ma che richiede analisi più approfondite prima di trarre conclusioni.

Per ora la scoperta suggerisce soltanto che in quelle rocce si siano verificate reazioni chimiche particolarmente sofisticate. Gli studiosi hanno individuato noduli e piccole venature ricche di fosfato e solfuro di ferro, spesso accompagnati da carbonio organico. In un contesto terrestre, queste caratteristiche potrebbero indicare interazioni tra minerali e microbi, per esempio trasformazioni da solfati a solfuri in ambienti privi di ossigeno, come avviene nei laghi antartici. Tuttavia, non è detto che lo stesso meccanismo si sia verificato su Marte.

Un altro punto chiave riguarda i limiti delle indagini in loco. Perseverance ha raccolto un campione chiamato Sapphire Canyon, ma per stabilire se i composti organici siano davvero di origine biologica servirà portare le rocce sulla Terra. Il programma Mars Sample Return, pensato proprio per questo scopo, al momento è in stand-by per problemi di costi e complessità tecnica.

Le rocce del Bright Angel: un laboratorio naturale

L’indagine, descritta sulla rivista Nature, ha messo sotto la lente la formazione geologica Bright Angel, un affioramento chiaro e stratificato che si trova lungo Neretva Vallis. In quest’area, Perseverance ha documentato sedimenti fini e conglomerati in cui ferro e fosforo appaiono ridistribuiti in noduli e minuscole “fronti di reazione”. Le analisi indicano che questi processi si sarebbero svolti a basse temperature e in presenza di acqua, creando minerali come la vivianite (fosfato ferroso) e la greigite (solfuro di ferro). Un aspetto interessante è che il fosfato non sembra derivare da minerali originari, ma da una riorganizzazione chimica avvenuta dopo la deposizione dei sedimenti.

Gli studiosi ipotizzano che il carbonio organico presente possa aver favorito reazioni di ossidoriduzione (le cosiddette redox) capaci di trasformare il ferro trivalente in ferro bivalente e di ridurre i solfati a solfuri. Questi meccanismi, sulla Terra, sono spesso legati a processi biologici, ma possono anche avvenire in modo puramente chimico. Nel caso marziano, diverse ipotesi abiotiche restano in campo: ad esempio, reazioni tra ferro e composti organici sintetizzati senza intervento biologico, oppure il contributo di gas ricchi di zolfo provenienti da antiche emissioni vulcaniche. Tuttavia, molte di queste spiegazioni richiederebbero condizioni particolari come alte temperature o specifici minerali, che non sembrano presenti nel Bright Angel.

Illustrazione di una ripresa di Perseverance (Hurowitz et al., 2025 FOTO) - aerospacecue.it
Illustrazione di una ripresa di Perseverance (Hurowitz et al., 2025 FOTO) – aerospacecue.it

Una firma incerta, tra geologia e biologia

Proprio questa difficoltà a spiegare tutti i dati solo con processi non viventi ha portato i ricercatori a valutare anche uno scenario biologico. In ambienti terrestri, infatti, microrganismi che “respirano” ferro o solfati producono minerali molto simili a quelli individuati da Perseverance. La vivianite, per esempio, si forma spesso come sottoprodotto della riduzione microbica del ferro, mentre la greigite compare in contesti dominati dalla riduzione batterica dei solfati. Strutture rocciose analoghe, dette “reduction halos” o “reduction spots”, compaiono in sedimenti marini e in rocce antiche del nostro pianeta, talvolta interpretate come segni di antiche comunità microbiche.

Ma non è una prova definitiva. Gli autori dello studio e l’articolo di commento firmato da Janice Bishop (SETI Institute) e Mario Parente (University of Massachusetts) ribadiscono che si tratta di “potenziali biosignature”: indizi coerenti con processi biologici, ma che non bastano per affermare che ci sia stata vita. La presenza di carbonio organico potrebbe infatti avere origini puramente chimiche, magari legate alla sintesi prebiotica marziana o a materiali extraterrestri arrivati con meteoriti. Senza le analisi di laboratorio sulla Terra, è impossibile distinguere tra le due possibilità.